Letteralmente a pezzi. La disoccupazione record, l’economia in recessione, il rating del Paese di nuovo abbassato. E la Catalogna che vuole l’indipendenza. Per Rajoy l’autunno è già caldissimo
Per María Dolores de Cospedal, segretaria del Partido popular spagnolo, marciare intorno al Congresso ha il sapore «di un colpo di Stato». Per una frangia dell’esercito, seppur minoritaria come quella rappresentata dalla Ame (Asociación de militares españoles), «attentare all’unità della Spagna chiedendo la secessione della Catalogna è un atto di alto tradimento che merita la Corte marziale». E per il primo ministro Rajoy non apprezzare le ricette del governo contro la crisi significa «voler distruggere il proprio Paese». Non tuonano ancora i cannoni in Spagna, ma le parole dei membri dell’esecutivo e di parte dei militari non contribuiscono a rasserenare il clima. Reso ancora più turbolento dalle dichiarazioni di Artur Mas, presidente della Comunidad autonoma di Catalogna, che il 25 settembre ha annunciato  nuove elezioni per novembre, subito dopo quele nei Paesi baschi e in Galizia previste per il 21 ottobre. Nelle sue intenzioni questo dovrà essere il primo passo verso la sovranità della regione, in vista di una eventuale indipendenza. Nello stesso giorno decine di migliaia di persone, reduci dalla grande manifestazione del 15 settembre – un milione di contestatori in 33 città della Spagna -  accerchiavano a Madrid il Parlamento spagnolo per chiedere un referendum sulle politiche economiche imposte da Mariano Rajoy. Con il risultato di portarsi a casa 64 feriti e una trentina di arresti. 
A 10 mesi dall’insediamento dell’esecutivo conservatore, la situazione in Spagna continua a deteriorarsi. Le cifre della disoccupazione non fanno nemmeno più notizia: è il 20 o il 30 per cento? Poco importa, tanto nessuno ha soluzioni da offrire. Di sicuro tra i giovani uno su due non ha lavoro, e nemmeno spera più di trovarlo. Chi non può emigrare fa il pendolare con la vicina Francia, dove pagano quasi 10 euro l’ora per raccogliere uva, una pacchia di questi tempi. Più di un milione di persone campano con l’aiuto della Caritas, quando nel 2007 erano appena un terzo. I diritti sul lavoro li ha cancellati la “reforma laboral” del febbraio scorso, le pensioni arriveranno dopo i 67 anni, per i libri di scuola non ci saranno più sussidi, e la sanità non è un diritto ma una conquista – nel senso che non a tutti spetta. La lista dei tagli di Rajoy è infinita, molto più della pazienza degli spagnoli. I sindacati organizzano manifestazioni quasi quotidiane, e persino le organizzazioni vicine al governo, quelle abituate più ai tavoli di concertazione che alla piazza, alla fine hanno detto basta. Vedere i cartelli della Csi-F, il sindacato conservatore della Funzione pubblica, ondeggiare a Plaza de Colón è stato il segnale che la misura era colma. «Mai c’è stata una distanza tale tra un governo e i suoi cittadini», riassume il quotidiano Público. «Mai gli spagnoli avevo visto tanto disprezzata la loro opinione». In piazza c’è di tutto. Duecento organizzazioni fanno parte della Cumbre social, di segno e cultura diverse: dai Jueces para la Democracia ai Veterinarios sin fronteras, dalla Confederación de padres de alumnos de la escuela pública alle Madres solteras. Ma  Mariano Rajoy ascolta una sola voce, quella di Bruxelles. Pazienza per lo scontento in patria, l’importante è farsi dire “bravo” dalla troika e diventare, come il Portogallo, l’allievo modello del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. E mentre il premier chiede la salvezza della Spagna ai contabili della Ue, un pezzo del Paese sceglie di andarsene da un’altra  parte. Abbandonando la nave che affonda.
Artur Mas non è un estremista, e non è nemmeno ideologicamente lontano da Rajoy. Tra il premier spagnolo e il presidente della regione catalana non c’è il fossato di una diversa concezione del mondo e dell’economia. I tagli che il primo chiede a livello centrale il secondo li applica a livello locale; a separarli ci sono però 5 miliardi di euro, quelli che Mas ha chiesto a Rajoy per rimettere in sesto la regione travolta dai debiti. Il governo centrale ha detto no: «I soldi non ci sono», ha spiegato Rajoy. Soprattutto, darli alla Catalogna sarebbe impossibile per via dei patti con Bruxelles, che vieta l’utilizzo dei fondi per colmare buchi di bilancio. Quindi, nessuna rinegoziazione del “patto fiscale” che lega Madrid alle comunità autonome. Piuttosto, si pensi a tagliare le spese, dice il governo. Però stavolta la reazione della Catalogna è andata oltre le aspettative. «Vogliamo la nostra sovranità», ha spiegato Mas. E i “suoi” cittadini gli sono andati dietro. L’11 settembre, giorno della Diada, la festa nazionale catalana, in piazza c’erano un milione e mezzo di persone. Certo, non tutte erano lì per l’indipendenza, «ma l’80 per cento delle bandiere erano catalane», spiega Joan Lluís Pérez Francesch, docente di Diritto costituzionale alla università autonoma di Barcellona, capitale della Catalogna. «È iniziato un processo che potrà andare a compimento se ci saranno tre condizioni: un accordo politico, una sostenibilità economica e una cornice giuridica di riferimento». L’accordo politico con lo Stato centrale, al momento, sembra però impossibile: Rajoy non ha nessuna intenzione di cedere alcunché alla Catalogna, anche perché le spinte in direzione di una completa autonomia fiscale non vengono solo da Barcellona ma anche da altre comunità, e l’effetto domino è dietro l’angolo.
«Ma Rajoy dovrà accettare di dialogare, non può far finta di nulla», sostiene Pérez Francesch. «Così come è necessario un dialogo con l’Unione europea, che può dare quell’appoggio esterno necessario per una vera indipendenza. Come a suo tempo si è fatto per i Paesi della ex Jugoslavia». Artur Mas, raccontano i commentatori, si è recato diverse volte a Bruxelles nelle ultime settimane, ha incontrato Barroso e ha parlato con Martin Schultz. Se di indipendenza o di soldi, questo non si sa. Ma il legame tra le due cose è strettissimo. E l’indipendenza è una questione economica. «Ma è anche culturale, sociale», spiega Nouri Bosch, economista all’università di Barcellona. Con una collega ha condotto uno studio per vedere se una Catalogna indipendente sarebbe finanziariamente sostenibile. «La risposta è  sì», dice Bosch. «La nostra Comunidad ha le risorse necessarie per essere un Stato a parte: mantenendo la stessa pressione fiscale, potremmo garantire tutto quello che oggi compete a Madrid, e ci avanzerebbero pure dei soldi». Da investire per il Bienestar, lo stato sociale, spiega Bosch. «Non sono cifre basse, si parla di miliardi di euro che Madrid si tiene anziché investire nello sviluppo della nostra regione». È il leit motiv di questi giorni, che rimbalza nelle discussioni tra amici, nei forum sul web, nei dibattiti televisivi. Ne è convinto anche Pérez Francesch: «La Catalogna versa più di quello che le torna indietro. Siamo quelli che danno di più per ricevere meno. Una situazione francamente intollerabile. Siamo i più poveri di Spagna». A dirla tutta, la Catalogna è la regione più ricca del Paese, al punto da contribuire per il 16,7 per cento al Pil dello Stato – i Baschi, tanto per fare un raffronto, contano appena l’8 per cento, meno della metà. Il livello di vita dei catalani è ben al di sopra di quello andalusiano, ma il punto, per gli indipendentisti, non è questo. «Basta pagare il conto del bar per gli altri. Che si arrangino», dice Josep Antoni Duran Lleida, numero due della Ciu, il partito di Artur Mas. Una posizione molto “merkeliana” niente affatto distante da quella del ministro delle Finanze tedesco Wolfang Schauble. Alla fine, il ritornello è lo stesso: perché i ricchi devono pagare per i debiti dei poveri?
«Una indipendenza su queste basi non è nell’interesse dei catalani», spiega però Toni Barbarà, responsabile Europa di Esquerra unida i alternativa. «La solidarietà con il resto del Paese è una condizione da cui non si può prescindere. Una Catalogna che proclama l’indipendenza per conservare privilegi non fa parte del nostro dna, non è accettabile». La sinistra catalana è divisa sul tema. C’è chi ha aderito alla proposta di Artur Mas, c’è chi la contesta completamente, come larga parte del Partito socialista catalano (affiliato al Psoe), e c’è chi la vuole usare come mezzo per arrivare a un nuovo modello economico. «Siamo su un crinale pericoloso», ammette Barbarà. «Si sono create troppe aspettative intorno a questo, complici anche i media che la destra controlla. Artur Mas agita oggi il vessillo della sovranità – lui che indipendentista non è mai stato – per nascondere le responsabilità sue e del governo in questa crisi. Quando andremo alle elezioni, ai cittadini chiederemo di giudicare questo, e non di plebiscitare semplicemente un’idea di secessione. Perché quando cammini per strada, quando vai in fabbrica o all’ufficio postale, la gente non parla di indipendenza: parla di fame, di bollette da pagare, di disoccupazione. Sono questi i nostri problemi oggi. Senza risolverli, senza solidarietà, l’indipendenza è un guscio vuoto».